Il gioco in Platone (terza parte).
Il gioco in Platone assume se non una vera e propria sfumatura teologica, quantomeno un’aura sacrale. Infatti in un passo della sua opera possiamo leggere: «ATENIESE – Io dico che noi dobbiamo occuparci di ciò che ha valore e tralasciare il resto; la divinità è per natura degna di interesse, che sia anche fonte di beatitudine, ma l’uomo, lo abbiamo detto prima non è che un giocattolo uscito dalle mani degli dei e ciò che di lui vale di più è proprio questo, in realtà. E in modo a ciò conseguente ogni uomo e ogni donna devono vivere anche la loro vita, cioè giocando i giochi migliori» [1] . E poco dopo lo Stagirita aggiunge: «E quale sarà il retto modo di vivere? Sarà quello di fare il proprio gioco, sacrificando, cantando e danzando, per vedere se con ciò si riesca a rendere propizi gli dei e a tenere lontano i nemici, sconfiggendoli in guerra» [2] . Questi passi, non correttamente intesi, possono essere assunti come punto di partenza per una visione nichilistica, come in epo