Il gioco in Gadamer.

Di straordinario interesse sono le pagine che un grande ludi
magister in epoca contemporanea, Hans Gadamer, dedica al tema del gioco. Egli, considerato, seppur con qualche perplessità da alcuni interpreti [1], tra i più platonici del XX secolo [2], dedica una parte della sua celebre opera Verità e metodo al fenomeno ludicovedendo in esso la possibilità di mostrare l’ontologia dell’opera d’arte. Il gioco è assunto dal filosofo come filo conduttore della esplicazione ontologica. Questo modo di indagare il fenomeno ludico potrebbe sembrare inopportuno, eppure, come vedremo, permette di comprendere il gioco sotto una luce nuova rispetto a quanto ha fatto la filosofia contemporanea. Dopo aver criticato chi sostiene la non serietà del gioco [3], Gadamer dichiara che
«il gioco raggiunge il proprio scopo solo se il giocatore si immerge totalmente in esso. Non il rimando esteriore del gioco alla serietà, ma solo la serietà del giocare fa sì che il gioco sia interamente gioco. Chi non prende sul serio il gioco è un guastafeste. L’essere proprio del gioco non permette che il giocatore si atteggi nei suoi confronti come verso un oggetto. Il giocatore sa benissimo che cosa è gioco, e che ciò che fa “è solo gioco”; ma non sa quel che in tal modo “sa”» [4].
La stranezza del fenomeno ludico è data dal fatto che, nella misura in cui si gioca, il gioco diventa qualcosa di autonomo rispetto a colui che gioca, acquista una sua consistenza, come nell’arte un’opera una volta creata è indipendente dal suo artista.
«L’essenza dell’opera risiede propriamente nel fatto che essa diviene un’esperienza che modifica colui che la fa. Il subjectum dell’esperienza dell’arte, quello che permane e dura, non è la soggettività di colui che esperisce l’opera, ma l’opera stessa. Proprio su questo punto diventa significativo per noi il concetto di gioco. Il gioco, infatti, ha una sua essenza propria, indipendentemente dalla coscienza di coloro che giocano. Gioco si dà anche, anzi si dà proprio, là dove non c’è un orizzonte tematicamente definito dal per sé di una soggettività, e dove non ci sono soggetti che si atteggiano ludicamente. Il soggetto del gioco non sono i giocatori, ma è il gioco che si produce attraverso i giocatori» [5].
Gadamer non misconosce il fatto che l’intenzione ludica crea, per così dire, il gioco, ma, come nel caso dell’opera d’arte, una volta creato, una volta istituito, esso vive di una sua essenza. Il filosofo, in altri termini, vuole mettere in luce l’ontologia del gioco. Egli sviluppa una pur breve analisi etimologica per evidenziare il fatto che
«l’essere del gioco non è tale da esigere che vi sia un soggetto che si atteggia ludicamente perché il gioco sia giocato. Piuttosto il senso originale del verbo giocare è quello mediale. Così diciamo per esempio che qualcosa in una certa situazione o in certo luogo “gioca”, che qualcosa si svolge, che qualcosa è in gioco. Queste osservazioni mi sembrano fornire un’indicazione indiretta del fatto che il giocare non vuole essere considerato in generale come un’attività esercitata da qualcuno. Per il linguaggio l’autentico soggetto del gioco non è manifestamente la soggettività di colui che, tra le altre attività, ha anche quella del gioco, ma invece il gioco stesso. Soltanto, noi siamo così abituati a riferire un fenomeno come il gioco al soggetto e ai suoi atteggiamenti che restiamo chiusi ai suggerimenti che ci derivano dalla sapienza del linguaggio» [6].
Perché emerga la portata ontologica del gioco, occorre distinguerlo dal giocatore, anche se, talvolta, appare difficile distinguere l’intenzionalità ludica dalla forma ludica. Perché il fenomeno ludico possa dire qualcosa, anche contro una ripetuta visione nietzschiana, occorre riconoscere il primato del gioco rispetto al giocatore. Solo per questa via si manifesterà in tutta chiarezza l’essere del gioco con il suo particolare movimento di andare e venire che «si dà come da sé stesso» [7].
A partire dal senso mediale del giocare, Gadamer non solo coglie il rapporto che sussiste tra l’essere del gioco e l’essere dell’opera d’arte, ma anche una peculiare caratteristica del fenomeno ludico. Perché, infatti ci sia gioco
«non è necessario che ci sia sempre realmente qualcuno che vi partecipi, occorre però che vi sia qualcosa d’altro con cui il giocatore gioca e che risponde al suo movimento con un movimento simmetrico. Così il gatto che gioca sceglie il gomitolo di lana, perché questo gioca con lui; e l’immortale popolarità del gioco della palla si fonda sulla libera mobilità della palla, che quasi da sé produce quanto vi è di nuovo e sorprendente nel gioco» [8].
È così che il filosofo tedesco, facendo unendo in un’unica eco la tradizione platonica che abbiamo incontrato e la tradizione aristotelica sulla mimesi, perviene ad affermare che il senso del giocare è un puro autorappresentarsi, per cui
«l’autorappresentazione del gioco fa sì che il giocatore, per dir così, perviene ad autorappresentarsi egli stesso, nella misura in cui gioca a, cioè rappresenta, qualcosa. […] Ogni rappresentare, secondo le sue possibilità, è un rappresentare per qualcuno. Su ciò si fonda il peculiare carattere ludico dell’arte» [9].
Ciò che si verifica nel fenomeno ludico è un vero e proprio mutamento nel quale
«il gioco umano giunge alla sua perfezione, che consiste nel farsi arte, [ed] è quello che chiamiamo la trasfigurazione in forma. Solo attraverso questo mutamento il gioco raggiunge la sua idealità, in modo da poter essere inteso e compreso in una sua individualità definita. Ora soltanto esso si manifesta come qualcosa di indipendente dall’azione rappresentativa dei giocatori e viene a consistere nel puro apparire di ciò a cui essi giocano. In quanto tale, il gioco – anche quello non preordinato dell’improvvisazione – è essenzialmente ripetibile e in questo senso è qualcosa di permanente. Ha il carattere dell’ergon, dell’opera, e non soltanto dell’energhia. In questo senso lo chiamo forma» [10].
Soprattutto in virtù del fatto che ogni gioco è anche e inscindibilmente un essere giocato [11], ‒ qui si situa il fascino del gioco ‒ esso è
«forma, e ciò significa che, nonostante il suo necessario rimando alla rappresentazione, esso è un tutto significativo che come tale può essere ripetutamente rappresentato e compreso nel suo proprio senso. La forma, dal canto suo, è anche gioco in quanto, nonostante questa sua ideale unità, raggiunge il suo essere pieno solo nelle singole rappresentazioni, nell’esser via via “giocata”. È la reciproca connessione di questi due aspetti quella che va sottolineata, contro l’astrattezza della “differenziazione estetica”» [12].
La limpidezza della pagine di Gadamer ci spinge a sottolineare come, talvolta, per poter comprendere il mondo del gioco, si ha bisogno di una porta d’ingresso e di una chiave per poter entrare. Il filosofo tedesco, ravvisandola nell’essere dell’opera d’arte, ha, probabilmente più di ogni altro, dischiuso una comprensione che in altri filosofi sembra non esserci. È interessante notare come, nel caso di Gadamer, l’aver trovato un metodo che permetta di indagare la verità del gioco, permane e si corrobora, come testimoniano altre pagine della sua produzione filosofica:
«Il gioco in sé è un movimento gratuito che, prescindendo dal giocatore, ha una propria consistenza. Il suo carattere specifico è quello di non aver altro scopo che se stesso, qui sta la sua leggerezza; non che il gioco non possa richiedere sforzo, ma quest’ultimo, qualora presente, non pesa perché è compensato ampiamente dalla movenza autotelica che lo caratterizza. Il movimento ludico trascina e rapisce; ciò si vede nella tendenza spontanea alla ripetizione che si manifesta nel giocatore, e nella ripresa continua che è propria del gioco stesso (refrain), il linguaggio conosce questo come fenomeno: l’accadimento di molte cose è “giocoforza”. Il bambino che gioca a far rimbalzare la palla inseguendola può rappresentare il vero compito d’ogni gioco: al di là dei singoli giochi, il giocatore si impegna innanzitutto ad inserirsi armonicamente nella forma ludica del movimento senza fine ed a lasciarsi condurre da esso verso altri luoghi» [13].

(estratto da F. Cittadini, Teologia del gioco, Aracne Editrice, Roma 2021dove si può trovare molto altro)

N.B.
2) Visualizza la rubrica sul gioco in filosofia presente in questo blog https://iltuttonelframmento.blogspot.com/search/label/Il%20gioco.

[1] Sotto questo profilo, cfr. G. Figal, Oggettualità. Esperienza ermeneutica e filosofia, Bompiani, Milano 2012.
[2] Cfr. G. Reale, La presenza di Platone in «Verità e Metodo» di Hans Georg Gadamer, in H.G. Gadamer, Verità e Metodo, VIII.
[3] Sulla serietà del gioco e, a partire da Gadamer e Hiedegger,  sulla critica ad un’impraticabilità di una riflessione ontologica sul fenomeno ludico, cfr. J. Greisch, Le phénomène du jeu et les enjueux onotologiques de l’hermeneutique, in «Revue Internationale de Philosophie», 3/2000, 447-468
[4] H.G. Gadamer, Verità e metodo, 228-229.
[5] Ibi, 129.
[6] Ibi, 232-233.
[7] Ibi, 233.
[8] Ibi, 235.
[9] Ibi, 241.
[10] Ibi, 245.
[11] Cfr. ibi, 237
[12] Ibi, 257.
[13] Idem, L’attualità del bello, Marietti, Genova 1998, 25.


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