Il gioco in Platone (prima parte)
Uno dei primi filosofi che ci ha lasciato preziosi frammenti sul gioco è Platone. Egli, nel Fedro, attraverso la figura di Socrate qualifica la sua opera come gioco. Come è noto, questo dialogo è stato redatto nell’ultimo periodo della vita di Platone e, comunque, è posteriore alla Repubblica; per questo può essere visto come un bilancio della sua opera. Se forse il giudizio che vede nel Fedro uno dei dialoghi più significativi di tutta l’opera platonica [1] può sembrare iperbolico, certamente qui ci troviamo di fronte ad un dialogo in cui Platone mette a tema il gioco. Interessante, sotto questo profilo, è l’inizio dell’opera. Siamo in campagna, lungo le rive del fiume Illisso. Lo stesso Fedro, il protagonista del dialogo, nota la singolarità di trovare Socrate, che non usciva mai dalla città, fuori dalle mura [2]. In questo luogo, stando a quanto si trova nelle Leggi, si gioca [3]. Significativamente, proprio qui, secondo un mito di cui Platone ci dà notizia all’inizio del dialogo, Farmacèa e Borèa giocavano. L’inizio, pertanto, di questo dialogo è connotato da un’atmosfera ludica che fa da cornice al filosofare degli interlocutori [4]. Anche sul finire del dialogo, in cui il tema del gioco acquista rilievo, c’è un richiamo ludico: la preghiera al dio Pan che conclude il dialogo, stando a quanto suggerito dallo stesso Platone [5], conferma la caratteristica ludica di tutto il Fedro. Nell’ultima parte del dialogo, il filosofo ateniese, attraverso Socrate, offre la propria interpretazione del discorso scritto [6]. Egli dapprima narra a Fedro un mito in cui la scrittura, invenzione del dio Theuth, viene presentata da questi al saggio re Thamus come farmaco per la sapienza e per la memoria. Ma il saggio re stupisce Theuth affermando:
«O ingegnosissimo Theuth,
c’è chi è capace di creare le arti e chi è invece capace di giudicare quale
danno o quale vantaggio ne riceveranno coloro che le adopereranno. Ora, essendo
padre della scrittura, per affetto tu hai detto proprio il contrario di quello
che essa vale. La scoperta della scrittura, infatti, ha per effetto di produrre
la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi
della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni
estranei, e non dal di dentro e da sé medesimi: dunque tu hai trovato non il
farmaco della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza, poi, tu
procuri ai tuoi discepoli l’apparenza, non la verità» [7].
Se, dunque, la scrittura è efficace perché
porta alla memoria, rammemora, è altrettanto vero che ci sono due generi di
scritti, tra loro fratelli legittimi: il discorso scritto nelle anime e quello
scritto nei rotoli che appartiene ai giochi molto belli:
«SOCRATE: [il filosofo] i
giardini di scritture le seminerà e li scriverà per gioco, quando li scriverà,
accumulando materiale così da richiamare alla memoria per sé medesimo, quando
giunga alla vecchiaia che porta all’oblio, se mai giunga, e per chiunque segua
la medesima traccia, e gioirà nel vederli crescere freschi. E quando gli altri
si dedicheranno ad altri giochi, passando il loro tempo nei simposi, o in altri
piaceri simili a questi, egli, allora, come sembra, invece che in quelli
passerà la sua vita giocando nelle cose che io dico.
FEDRO: Ed è un gioco
molto bello, Socrate, in confronto dell’altro che non vale nulla, questo di chi
è capace di giocare con i discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle
altre cose di cui parli» [8].
Per Platone, in fondo, scrivere è
giocare; ma scrivere con inchiostro, pur essendo un bel gioco, è meno “serio”
dello scrivere nelle anime:
«SOCRATE: Chi ritiene,
invece, che in un discorso scritto, qualunque sia l’argomento su cui verte, vi
sia necessariamente molta parte di gioco, e che nessuno discorso, sia mai stato
scritto in versi o in prosa con molta serietà […], ma che, veramente i migliori
di essi non sono altro mezzi per aiutare la memoria di coloro che già sanno; e
ritiene che solamente nei discorsi detti nel contesto dell’insegnamento e allo
scopo di far imparare, ossia nei discorsi scritti realmente nell’anima intorno
al giusto e al bello e al bene, ci sia chiarezza e compiutezza e serietà; e
inoltre ritiene che discorsi di questo genere debbano essere detti suoi, come
se fossero legittimi, e prima di tutto il discorso che egli reca in se stesso,
se mai lo abbia trovato, e poi quelli che, o figli o fratelli di questo, sono
nati in ugual modo in altre anime di altri uomini a seconda del loro valore, e
saluta tutti gli altri e li manda a spasso; ebbene Fedro, appunto un uomo di
questo genere è probabile che sia colui che tu e io ci augureremmo di diventare» [9].
Una lettura poco attenta di questi passi
platonici potrebbe portare a contrapporre la serietà dello scrivere nelle anime
alla giocosità dello scrivere con inchiostro. Seppur rimanga una certa
possibilità d’equivocare, qualora ci si fermi a livello terminologico, da una
lettura globale, che in questa sede non è possibile praticare interamente,
emerge chiaramente che esistono due tipi di gioco, quello dello scrivere nei
rotoli e quello dello scrivere nelle anime. Il primo, benché sia un bel gioco, a motivo
della sua qualità rievocatrice, rammentatrice, rischia di impedire di cogliere
la forza del rimando all’altrove.
«Il discorso scritto nei
rotoli rischia di non alludere, bensì di illudere che il vero sia questione di
conoscenza esteriore di formule. Veramente diverso, invece, è il discorso
scritto nelle anime, esso in quanto agisce dall’interno, è sicuro rimando al
vero. Ecco perché non rischia l’equivoco: si tratta d’in-scrivere il gioco del
rimando nei cuori, ossia fissare, indelebilmente, senza ambiguità, il desiderio
del Bene. […] Chi scrive discorsi nei rotoli gioca, allude, ma solo chi è
consapevole dell’altrove lì indicato, solo chi sa di giocare può davvero
giocare e, così, far giocare; questi è il filosofo» [10].
Il discorso scritto nelle anime è un
gioco migliore perché con maggior compiutezza, chiarezza e serietà, consente di
scrivere intorno al giusto, al bello e al vero e, questo, stando al dettato del
dialogo di Platone, dovrebbe essere il compito del filosofo. D’altronde, se la
giustizia, come mostra il noto mito di Er, non può essere altro che una virtù
dell’anima [11],
il filosofo non può far altro che mettere in atto un gioco giusto, bello e vero.
Sulla scia di quanto Platone afferma nel Fedro, expressis verbis, siamo legittimati a ritenere che la filosofia
sia un gioco e, in particolare, la stessa filosofia dell’ateniese sia un gioco.
Questa caratteristica ludica, come ha notato Giovanni Reale, in prima istanza
non appare, eppure ad una lettura attenta, si può notare come
«i richiami ai punti
chiave delle “Dottrine non scritte”, quando vengono presentati nei dialoghi
sono sempre fatti in quella forma del gioco che per Platone è tipica dello
scritto, spinta addirittura all’estremo. E questo è proprio ciò che avviene nel
Simposio, in un modo che si può
considerare paradigmatico» [12].
Non solo nel celebre dialogo sull’eros si
manifesta una tonalità ludica [13]
ma è tutta la scrittura platonica ad essere contrassegnata da questa giocosità.
Platone, infatti, si serve non solo del gioco dei rimandi e delle allusioni alle
“dottrine non scritte”, ma anche di un genere assimilabile alla commedia:
innumerevoli sono le scene comiche, le situazioni di riso, le parodie, le esagerazioni grottesche. Egli,
attraverso le maschere dei protagonisti dei dialoghi ammette sovente di
scherzare: Socrate è descritto come colui che, giocando, si diletta a celiare
poiché anche gli dei sono amanti dello scherzo[14].
Pertanto la diffusa intonazione ludica dei dialoghi non è occasionale o mero
artificio letterario ma una componente essenziale per mezzo della quale il filosofo
ateniese esplicita i diversi temi del suo pensiero. Egli stesso, nella sesta
lettera, dai più ritenuta autentica, invita a giocare nell’esercizio della
filosofia:
«questa lettera dovete
leggerla tutti e tre; meglio se assieme, altrimenti due per volta, e il più
spesso che sia possibile, prendendola come un accordo e una legge sovrana,
sulla quale è giusto giurare con serietà ma senza seriosità, anzi con quella
giocosità che è completamento naturale del serio. Giurate, dunque, per il dio
che è giuda di tutte le cose presenti e future, padre e signore della guida e
della causa che noi tutti, se filosoferemo realmente, conosceremo tutti
chiaramente, per quanto è possibile a uomini beati» [15].
(estratto da F. Cittadini Teologia del gioco, Aracne Editrice, Roma 2021, dove si può trovare molto altro)
N.B.
1) Puoi anche vedere https://www.youtube.com/watch?v=MNvrS5t-bQk.
2) Su Platone e il gioco vedi anche https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2020/04/il-gioco-in-Platone-2.html e https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2020/04/il-gioco-in-Platone-3.html.
[1] Cfr. G. Reale (a cura di), Platone.
Fedro, Lorenzo Valla, Milano 1988, IX.
[2] Cfr. Platone, Fedro, 230 c-d.
[3] Cfr. Idem, Leggi, 804 c.
[4] Cfr. Idem, Fedro, 234 d; 236 b; 262 d, 265 c, 278 b.
[5] Cfr. Idem , Leggi,
VII, 803 c-e.
[6] Come è noto, Socrate non ha scritto nulla. Aristotele, invece si trova
nella posizione di chi assume e difende la scrittura. Platone si colloca nel
mezzo e si trova a vivere il cambiamento d’epoca. Dalla metà del VI secolo
a.C., infatti, la scrittura inizia a diffondersi, ma solo nell’epoca dei
sofisti raggiunge il suo apice. Il libro, nel suo rendersi autonomo
dall’autore, veniva considerato efficace strumento per una maggiore conoscenza
e farmaco per la memoria. Sempre più si diffondeva la convinzione che si
potesse imparare prescindendo da un maestro e dalla trasmissione orale di
conoscenze. In questo contesto Platone non si mostra contrario alla scrittura,
ma offre un’ermeneutica in chiave ludica. Sul ruolo del libro nell’epoca di
Platone, cfr. M. Erler, Il senso delle aporie nel dialoghi.
Esercizio di avviamento filosofico, Vita e Pensiero, Milano 1991.
[7] Platone, Fedro, 274 e-275 a.
[8] Ibi, 276 d-e.
[9] Ibi, 277 e - 278 b.
[10] F. Giacchetta, Gioco e trascendenza, 57.
[11] «La virtù non ha padrone, e ognuno ne avrà una parte maggiore, se le
tributerà onore, o minore nel caso contrario. La responsabilità è di chi
sceglie: un dio non è responsabile» (Platone, Repubblica, X, 617 e).
[12] G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone,
Vita e Pensiero, Milano 1997, 471.
[13] Cfr. Idem, Eros demone mediatore. Il gioco delle
maschere nel Simposio di Platone, Rizzoli, Milano 1997.
[14] Cfr. Platone, Sofista 234 a; Idem, Simposio 216
e; Idem, Repubblica I, 337 e, Idem,
Cratilo, 406 c.
[15] Idem, Lettera VI, 323 c-d.
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