Il gioco in Platone (seconda parte).
Non dovendo dimostrare il tratto ludico di ciascun dialogo [1] – cosa che esula dal presente studio ‒ vogliamo ora soffermarci su un aspetto che abbiamo indagato e in Platone trova una sua prima sottolineatura teoretica. In diversi dialoghi, infatti, il filosofo ateniese afferma che «l’imitazione è un gioco» [2] che richiede notevole abilità e, nondimeno, produce grande piacere [3]. Ma qual è il valore dell’imitazione e, di conseguenza, del gioco nella filosofia platonica? Senza dover passare in rassegna tutte le ricorrenze del lemma imitazione nei testi platonici e stando anche al contesto nel quale si colloca l’identificazione sopracitata tra mimesis e paidia, occorre subito affermare che Platone condanna un certo tipo di imitazione/gioco, quella fatta nell’ignoranza che, di conseguenza, è solo parvenza di imitazione [4]. Il filosofo ateniese, quindi, condanna senza appello quell’imitazione/gioco che è priva di scienza. C’è vera, autentica imitazione solo quando si dà la possibilità di un’imitazione accompagnata a conoscenza e non ad opinione.
«STRANIERO – Di quelli
che imitano, alcuni lo fanno conoscendo ciò che imitano, altri, invece, senza
conoscerlo. Ebbene, quale distinzione potremo porre più grande di quella tra
ignoranza e conoscenza?
TEETETO – Nessuna.
STRANIERO – Ciò che è
stato detto poco fa non era imitazione fatta da uomini che sanno? Infatti, uno
può imitarti solo se conosce te e la tua figura.
TEETETO – Certo no?
STRANIERO – Ma quale è la
figura della giustizia, ed in generale della virtù nel suo complesso? Non è
forse vero che, pur non conoscendola, molti fanno grandi e ardenti sforzi per
far apparire come in loro presente ciò che a loro volta sembra virtù, imitandola
più che possono nelle azioni e nei discorsi?
TEETETO – Certo, proprio
molti.
STRANIERO – Dunque,
riusciranno forse tutti a sembrare giusti, pur non essendolo affatto? O è vero
il contrario?
TEETETO – Tutto il
contrario.
STRANIERO – Credo che si
debba dire questo imitatore diverso da quell’altro, quello che non conosce
diverso da quello che conosce.
TEETETO - Sì» [5].
Insita nell’imitazione c’è un ambiguità,
o meglio c’è un rischio: quello di simulare [6],
di fingere di giocare. Esiste il rischio di barare che è dovuto al fatto che il
gioco imitativo, come l’immagine, è un misto di essere e non essere che lo
rende qualcosa di differente.
«TEETETO – Che cosa,
straniero, potremmo dire che sia un’ immagine, se non l’oggetto fatto a
somiglianza di quello vero, diverso, ma simile?
STRANIERO – Ma con
“diverso, ma simile” intendi dire un oggetto vero, oppure a che cosasi riferisce la parola “simile”?
TEETETO – Per niente un
oggetto vero, bensì uno somigliante.
STRANIERO – E intendi
dire che quello vero esiste realmente?
TEETETO ‒ Sì.
STRANIERO – E poi? Quello
non vero non è il contrario di quello vero?
TEETETO – Certo.
STRANIERO – Dunque, tu
dici che il somigliante non è realmente, dal momento, almeno, che lo dice “non
vero”.
TEETETO – Eppure, in
qualche modo è.
STRANIERO – Ma non
veramente, dici.
TEETETO – No, infatti,
tuttavia, almeno come raffigurazione, realmente è.
STRANIERO – Dunque,
quella che chiamiamo raffigurazione è realmente, pur essendo realmente?
TEETETO – C’è il rischio
che l’ente si intrecci con il non-ente in un intreccio di questo tipo: molto
strano!» [7].
Il problema dello statuto ontologico
dell’immagine è anche quello del gioco perché tanto l’una quanto l’altro sono
caratterizzati da realtà e irrealtà, da essere e apparire.
Tuttavia il rischio di simulare, di
fingere è anche un problema di carattere etico. Il gioco imitativo, infatti,
rischia di essere confuso con la finzione dell’inganno. Il gioco, per non
essere un imbroglio, vive di sincerità, di lealtà, di correttezza, di rispetto
delle regole. Si gioca esclusivamente se non viene nascosta l’intenzione
ludica. Platone è consapevole di questo tanto che per lui la sincerità del bel
gioco educa al bene [8]
e, contemporaneamente, rivela le predisposizioni:
«- La scienza dei
computi, pertanto, e quella della geometria e ogni disciplina preparatoria che
deve essere insegnata prima della dialettica, dobbiamo proporla loro mentre
sono ancora fanciulli, senza però farne quasi un sistema di dottrina da impararsi
per obbligo.
˗ E perché?
˗ Perché, dissi io,
l’uomo libero non deve apprendere alcuna scienza in modo da schiavi. Se infatti
le fatiche del corpo sopportate per forza non rendono questo in nulla peggiore,
nell’anima nessun insegnamento forzato può durare.
˗ È vero disse.
˗ Non con la violenza
pertanto, o caro, dissi io, hai da educare i fanciulli negli studi, ma con i
giochi, affinché tu sia in grado di meglio discernere a che cosa ciascuno sia
nato» [9].
A motivo della ravvisata parentela
etimologica nel greco classico tra paidia
e paideia, Platone mette in luce come
l’uomo impari attraverso il gioco e, se il filosofo è colui che ama imparare [10],
egli è anche colui che sa giocare. Nei dialoghi il filosofo ateniese dà prova
della sua grande capacità ludica facendo giocare bambini e giovani, ma anche
saggi vegliardi, per i quali l’attività ludica è la più conveniente [11].
Sotto questo profilo egli si mostra un autentico ludi magister.
Pertanto, nella distinzione tra la “vera”
e la “falsa” imitazione/gioco, in definitiva, si viene a situare una delle
questioni che attraversa tutta la filosofia platonica, quella dell’amore per la
conoscenza, di cui la vera imitazione/gioco è cifra. La stessa dotta ignoranza,
il sapere di non sapere, che si esprime in una serie di domande che Socrate
rivolge agli interlocutori, è un gioco, quello di una sofia mai posseduta. «Uomini, fra di voi è sapientissimo chi, come Socrate, si è
reso conto che, per quanto riguarda la sua sapienza, non vale nulla» [12].
L’ironia, che caratterizza nei dialoghi platonici il personaggio/maschera di
Socrate, dice la giocosità di quest’uomo e, contemporaneamente, per il fatto
che essa non è mai distruttiva, fa intravvedere una premurosa attività
pedagogica. Tale ironia nelle sue diverse forme si mostra per essere un gioco
che evidenzia un’intenzione d’oltrepassamento [13].
(estratto da F. Cittadini, Teologia del gioco, Aracne Editrice, Roma 2021)
[1] In via approssimativa si potrebbe affermare: «la redazione dei dialoghi è
un gioco, un buon bel gioco aggiunge Fedro;
la dialettica del Parmenide è un
gioco laborioso, il grande mito del Politico
è un gioco, la cosmologia del Timeo è
un gioco ragionevole e rilassante; sono giochi le dotte affermazioni proprie
dei vegliardi delle Leggi; e l’uomo,
non è, egli stesso, un giocattolo degli dei?» (M. Deschoux, Platon ou le jeu philosophique,
Annales Littéraires de l’Université de Besançon, Paris 1980, 418).
[2] Platone, Repubblica, X, 602 b.
[3] Cfr. Idem, Sofista, 234 b.
[4] Cfr. Idem, Repubblica, 602 a-b.
[5] Idem, Sofista, 267 b-d.
[6] Cfr. Ibi, 268 a.
[7] Ibi, 240 a-c.
[8] Numerosi sono a tal proposito i riferimenti. Ad esempio, cfr. Idem, Repubblica, IV, 425 a; Idem,
Leggi, I, 643 b-d; Ibi, 819 b-c. Interessante notare che,
sulla scia di una nuova interpretazione dell’opera dello Stagirita (Badiou, Cacciari,
Žižek Agamben, Vitiello), la filosofia platonica sia caratterizzata da una
centralità del bene, alla luce della quale tutti i dualismi attribuiti a
Platone diventano illusioni ermeneutiche. Cfr. S.
Lavecchia, Una via che conduce al divino. La homoiosis
theo nella filosofia di Platone, Vita e Pensiero, Milano 2006; Idem, Oltre l’uno e i molti. Bene ed essere nella filosofia di Platone,
Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2010; Idem, Generare la luce del bene. Incontrare
veramente Platone, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2015.
[9] Platone, Repubblica, VII, 536 d-537 a.
[10] Cfr. Idem, Fedro, 230 d.
[11] Per esempio, cfr. Idem,
Leggi, II, 657 d. È interessante
notare, come recentemente è stato fatto, come lo statuto agatologico dei
dialoghi platonici si esprima nel fatto che i diversi personaggi, dialogando,
sono chiamati a rendere ragione del proprio rapporto con la virtù. Inoltre la
ricerca del bene, la ricerca della vera virtù e la ricerca dell’io costituiscono,
negli stessi dialoghi platonici, un’unità di momento teoretico e pratico. Cfr. S. Lavecchia, Generare la luce del bene, 105.
[12] Platone, Apologia di Socrate, 23 a.
[13] Cfr. G. Reale, Socrate. Alla scoperta della sapienza umana.
RCS Libri, Milano 2000, 151-183; A. Risso, I diversi modi di amare sophia. La paideia
strutturale del dialogo platonico, La Nuova Italia, Firenze 1996.
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