Post

La domenica di Lazzaro.

Immagine
«Gesù, allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò […]. Gesù scoppiò in pianto» (Gv 11, 33. 35). Nella quinta domenica della Quaresima il rito ambrosiano ci pone di fronte ad una delle più belle pagine della Scrittura. Lazzaro, l’amico di Gesù, è morto. Egli, dunque, decide di andare con gli apostoli a Betania, di andare lì dove poco prima dei Giudei avevano tentato di ucciderlo. La scena, pertanto, è questa: c’è un morto e c’è aria di morte. Gesù va e compie quello che per Giovanni è l’ultimo segno, il più grande: ridona la vita a Lazzaro. Nel mezzo c’è Gesù che si commuove, si turba e piange. Sono verbi che apparentemente non vogliono dire nulla: come non commuoversi, come non turbarsi, come non piangere di fronte alla scomparsa del proprio amico? Eppure hanno un significato perché il soggetto di questi verbi è Gesù, Dio fatto carne. Qui c’è una rivoluzione teologica: il nostro Dio

La domenica del cieco.

Immagine
«Da che mondo è mondo, non si è mai sentito che uno abbia aperto gli occhi ad un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla» (Gv 9, 32-33). Con questa affermazione il cieco nato, guarito da Gesù, – la Quarta domenica di Quaresima in rito ambrosiano si può ascoltare lo stupendo di capitolo di Giovanni 9 – confessa la sua fede. A ben vedere è lui il vero illuminato, non i giudei che di fronte allo straordinario gesto del Nazzareno di ridare la vista si chiudono e anzi molestano il povero che ha riavuto la vista. Chi è il vero cieco? L’uomo che è così fin dalla nascita o i giudei che non sanno vedere la bellezza di quanto è accaduto? In fondo questo testo sta a dirci che la fede è una questione di sguardo. Se i nostri occhi sanno talmente abituati a vedere il male, come potranno cogliere la bellezza del bene, soprattutto quando questo si presenta nella forma più semplice possibile? I giudei rimangono fermi nella loro posizione: per loro Gesù non è il Mes

La domenica di Abramo.

Immagine
«Gesù disse a quei Giudei che gli avevano creduto […]. Allora raccolsero delle pietre contro di lui; ma Gesù si nascose e usci dal tempio» ( Gv 8, 31. 59). Il Vangelo della terza domenica, che in rito ambrosiano è legata alla figura di Abramo, si apre in un certo modo e si conclude in modo totalmente contrario. All’inizio ci sono dei Giudei che credono in Gesù, questi, alla fine, saranno che raccoglieranno delle pietre per scagliarle contro Gesù. Tra l’inizio e la fine un dialogo in cui Gesù cerca di far capire ai quei Giudei che tra lui e il Padre c’è un legame particolare, legame che è più importante di quello con Abramo, il patriarca della fede. Questa dialogo ha un unico obiettivo: conoscere la verità che rende liberi. Qual è questa verità? È il Figlio, è Gesù stesso che libera dai legami etnici – ecco perché Abramo non è più importante, passa in secondo piano – e ti inserisce in una comunità in cui conta la relazione che si instaura con il Padre grazie al Figlio. L’unica a

La domenica della samaritana.

Immagine
Nel rito ambrosiano, per tradizione, la seconda domenica è la domenica della samaritana e il brano biblico di riferimento, pertanto, è il bel capitolo di Giovanni 4. In questo testo si narra della vicenda di una samaritana che viene condotta da Gesù a riconoscere in lui il Messia atteso. Nel dialogo tra la donna e Gesù c’è un particolare che può sfuggire. Infatti emerge chiaramente che, pur avendo avuto cinque mariti, nessuno ha avuto in moglie veramente questa samaritana «Le dice Gesù: “Hai detto bene: ‘Io non ho marito’. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito”» ( Gv 4, 17). Questa donna – non si capisce bene perché: il testo non permette di fare facili ipotesi! – vive un problema, un dramma: nessuno l’ha amata mai veramente. Lei non si sente sposa di nessuno, neppur del marito che pur ha in questo momento; vive una drammatica situazione d’amore. Ella è ancora in ricerca del vero amore, di quell’amore capace di riempirgli la vita, di renderla felice

La potenza di Dio.

Immagine
È un’opera davvero interessante quella di Giovanni Cesare Pagazzi, sacerdote della Diocesi di Lodi e docente presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, a cominciare dal titolo che evoca risonanze liturgiche. Il libro, edito dalla San Paolo, cerca di riavvicinare in modo acuto e intelligente la teologia ad un tema, quello del potere/della potenza, che a partire dalla terribile tragedia dell’Olocausto non è stato più tanto frequentato. Anzi su una questione di una straordinaria portata è calato il silenzio anche perché per i teologi è tuttora difficile ad una domande del genere: se Dio è Onni-potente perché ha permesso Auschwitz e/o perché permette il male nel mondo? Prima di rispondere ad un quesito così complesso, tuttavia, andrebbe discussa la nozione di potere/potenza che c’è dietro. La questione sta qui: «ben lontana dall’essere alternativa alla misericordia o all’amore, la potenza di Dio è presentata dalla Sacre Scritture come radice di bontà, compassione

La Quaresima e le tentazioni

Immagine
«Subito dopo lo Spirito Santo lo sospinse nel deserto e lì vi rimase per quaranta giorni» (Mc 1,12) Il periodo liturgico della Quaresima, ogni anno, inizia con la pagina del Vangelo in cui si narra delle tentazioni di Gesù. Tuttavia, se siamo onesti, possiamo notare una cosa sorprendente: non è Gesù che liberamente si sottopone a questa prova, ma è lo Spirito che, come dice il testo lo sospinge o meglio lo costringe, stando al verbo greco usato nel testo originario, nel deserto. In altri termini è lo Spirito a muovere Gesù nel deserto per i “suoi” quaranta giorni. Gesù rispetto all’azione esercitata su di lui dallo Spirito è inerte, passivo; Egli si lascia guidare, si consegna all’Amore che unisce Figlio e Padre in un vincolo indissolubile. Perché? Egli si fa accompagnare in un luogo, il deserto, dove il popolo d’Israele, nei quaranta anni del suo interminabile pellegrinaggio, ha imparato, è diventato a poco a poco il popolo di Dio, il popolo che si fa condurre da Dio, fidandos

Paul Tillich: breve ritratto di un teologo.

Immagine
Paul Tillich nacque a Strarzeddel, nel Brandeburgo, nel 1886. Figlio di un pastore e dirigente scolastico, egli ricevette una formazione religiosa tradizionale, prima di condurre studi filosofici e teologici approfonditi a Berlino, Tubinga e Halle, conseguendo titoli accademici in entrambe le discipline. Nel 1919 iniziò la sua lunga carriera accademica, ricoprendo cattedre di teologia e di filosofia a Marburgo, Dresda, Lipsia e Francoforte. Infatti, come egli ha affermato nella sua celebre autobiografia, redatta nel 1936, Sulla linea di confine , il suo pensiero non può non essere nella tensione tra queste due polarità: la filosofia e la teologia. Con l’avvento del nazionalsocialismo, la posizione di Tillich in Germania diventa precaria a causa della sua adesione al socialismo religioso. Egli fu il primo accademico non ebreo ad essere espulso dall’università. Marx Horkheimer, suo collega a Francoforte, gli consigliò di emigrare in America. Qui insegnò dapprima all’Unione Theolo