Il gioco in Heidegger.
In Heidegger «oltre che nel Satz vom Grund, il concetto di gioco
appare in altri luoghi del cammino del pensiero heideggeriano, segnandone
sempre con la sua presenza i momenti fondamentali, per poi pronunciare il suo
abissale mistero e diffondersi in tutta la sua in-audita ‒ o dimenticata ‒
portata innovatrice nelle ultime pagine sul principio di ragione» [1].
Infatti, secondo molti interpreti, l’interesse del filosofo per il gioco
risalirebbe alle origini della svolta seguita ad Essere e Tempo [2],
svolta che toccherebbe il suo apice con Il
principio di ragione [3]
e della quale alcune tracce sarebbe contenute nell’Introduzione alla metafisica [4].
Il tema del gioco in Heidegger, pertanto, raggiunge la sua massima punta di
riflessione teoretica nell’opera dedicata al principio di ragione ed è connessa
alla ripresa della questione del mondo, che «non è una interpretazione più
precisa e più rigorosa dell’essenza del mondo, bensì in primissimo luogo cerca
di porre sotto lo sguardo il ciò-che-è-mondo come possibile tema di un problema
della metafisica» [5].
Egli tratta, pertanto, il gioco come una questione di carattere metafisico.
Tuttavia, diversi interpreti di Heidegger, benché riconoscano la difficoltà di
contornare l’idea di gioco che si riscontra nell’opera del filosofo tedesco,
volutamente non trattano le ultime pagine del saggio sul principio di ragione [6].
Occorre, invece, far emergere l’evoluzione che, nel pensiero heideggeriano, il
tema del gioco subisce, per mettere in luce la sorprendente bellezza che si riscontra nelle ultime pagine de Il principio di ragione, senza ritenere
che una parte del pensiero del filosofo tedesco sia migliore rispetto al resto
e, perciò, più degna di essere trattata [7].
In Essere
e Tempo, Heidegger insiste sul fatto che uomo e mondo non sono enti che si
collocano l’uno di fronte all’altro: l’essere-nel-mondo è un tratto
caratteristico dell’esserci, è un esistenziale. Le cose, pertanto, che l’uomo
incontra nel mondo sono degli utilizzabili inseriti in un progetto, sono
strumenti-per che esigono un orizzonte entro il quale venire comprese. Il
mondo, in questa prospettiva, è la condizione perché i singoli utilizzabili
possano apparire, è quell’orizzonte, quella totalità strumentale progettata dall’uomo. «Il mondo
non è affatto una determinazione dell’ente difforme dall’esserci, ma, al
contrario, un carattere dell’esserci stesso» [8].
Negli scritti successivi ad Essere e
tempo, l’articolazione tra esserci e mondo è attenuata e quest’ultimo,
grazie al ricorso del concetto del gioco, diviene lo sfondo in cui appare
l’essente al ritararsi dell’essere, si trasforma nello spazio-di-gioco
dell’essere:
«coseggiando, la cosa fa
permanere i Quattro uniti, terra e cielo, i divini e i mortali, nella
semplicità della loro Quadratura, unita di per se stessa […] Il rispecchiare legante
nella libertà è il gioco, che confida ognuno dei Quattro a ognuno degli altri
grazie al plesso della traspropriazione che li trattiene. Nessuno dei Quattro
si irrigidisce in ciò che ha di specificatamente proprio. Invece, ognuno dei Quattro,
all’interno della traspropriazione, è espropriato in modo da divenire qualcosa
di proprio. Questo espropiante traspropriare è il gioco di specchi della
Quadratura. In virtù di esso i Quattro sono legati nella semplicità che li
affida l'uno all’altro. Il facente-avvenire-traspropriante gioco di specchi
della semplicità di terra e cielo, divini e mortali, noi lo chiamiamo mondo» [9].
Il gioco diventa il logos del mondo, ma, esso non va confuso con il fondamento, di cui
il gioco, per Heidegger, ne è in realtà lo sfondamento:
«il mondo è in quanto
mondeggia. Ciò vuol dire che il mondeggiare del mondo non è spiegabile in base
ad altro né fondabile su altro. […] Appena la conoscenza umana esige una
spiegazione in questo campo, essa non si innalza oltre l’essenza del mondo., ma
invece ricade al di sotto del modo di essere del mondo. La volontà DIi
spiegazione che l’uomo ha non arriva in generale al semplice della semplicità
del mondeggiare» [10].
Il tema del gioco emerge, nel pensiero
del filosofo tedesco, come l’approdo, teoreticamente valido, in merito alla
questione del fondamento del mondo che, pur appartenendo a tutto il percorso
speculativo heideggeriano, viene ripreso e affrontato con una grande profondità
teoretica ne Il principio di ragione,
frutto del corso universitario tenuto nel 1956.
In quest’opera, Heidegger mette in luce
la radicale differenza tra l’essere fondato dell’ente, da un lato, ed il
fondamento dell’essere dall’altro. Un conto è la tesi ontica relativa all’ente
ed al suo essere fondato, un conto è, invece, la tesi ontologica che stabilisce
la coappartenenza tra essere e fondamento:
«la tesi del fondamento
dimostra di non essere soltanto un’asserzione sull’ente. Scorgiamo piuttosto
questo: la tesi del fondamento parla dell’essere dell’ente. Che cosa dice la
tesi? La tesi del fondamento dice: all’essere appartiene qualcosa come
fondamento. L’essere è dello stesso genere del fondamento, ha il carattere del
fondamento. La tesi: "l'essere ha il carattere del fondamento” dice
qualcosa di completamento diverso dall’asserzione: “l’ente ha un fondamento”.
“L’essere ha il carattere del fondamento” non significa quindi affatto
“l’essere ha fondamento” bensì: l’essere è essenzialmente in sé in quanto
fondante» [11].
Per il filosofo tedesco esiste il
problema della fondazione in quanto l’essere è per essenza senza fondamento e,
dunque, «ogni fondazione, anche e soprattutto quella per mezzo di sé, rimane
inadeguata all’essere in quanto fondamento. Ogni fondazione […] non può che
ridurre l’essere a qualcosa che è, cioè ad un ente» [12].
È in questo delicato punto della sua
riflessione teoretica che Heidegger, al termine della tredicesima ed ultima
lezione, introduce il concetto di gioco per dire l’abisso senza fondo
dell’essere, per dirne, in altri termini, la sua sovrabbondante pienezza.
«L’essere va pensato in
quanto essere. L’essere, in quanto è ciò che va pensato e, in base alla sua
verità diventa ‘ciò che dona la misura’. Il modo del pensiero deve commisurarsi
a questa ‘donazione di misura’. Ma questa misura e la sua donazione non le
possiamo strappare da noi stessi e farle nostre mediante alcun calcolo e alcuna
misurazione. Esse rimangono ciò che per noi è incalcolabile e incommensurabile
[…] Se udiamo la tesi del fondamento dell’altra tonalità, e se pensiamo su ciò
che abbiamo udito, questo ri-pensare si rivela essere un salto e, precisamente,
un salto in lungo che mette in gioco il pensiero con ciò che l’essere poggia
sul proprio fondamento. Grazie a questo salto, il pensiero giunge nell’ampiezza
di quel gioco su cui è posto il nostro essere uomini. Solo nella misura in cui
l’uomo è messo in questo gioco ed è qui, posto in gioco, egli è veramente in
grado di giocare e di restare in gioco. Ma di che gioco si tratta? Questo gioco
lo abbiamo appena esperito e non l’abbiamo ancora pensato attentamente nella
sua essenza, vale a dire a che cosa si gioca, a chi gioca, e a come qui il
giocare deve essere pensato. Anche se assicuriamo che il gioco qui inteso –
quel gioco, cioè, in cui l’essere in quanto essere riposa – è un gioco alto, se
non addirittura il gioco sommo e, inoltre, che esso è scevro di ogni arbitrio,
con ciò si è detto ancora poco, finché questa altezza e la sua sommità non
vengono pensate in base al mistero del gioco. Ma per pensare questo mistero, il
modo di pensare fino ad oggi praticato non è sufficiente» [13].
Riprendendo e interpretando un frammento
di Eraclito [14],
il filosofo tedesco arriva ad affermare:
«il destino dell’essere è
un fanciullo che gioca, che gioca con le tessere di una scacchiera, di un
fanciullo è il regno – e cioè l’arché,
il fondare che istituisce e governa, l’essere dell’ente. Il destino
dell’essere: un fanciullo che gioca. Vi sono, quindi, fanciulli grandi. Il
fanciullo più grande, reso regale dalla delicatezza del suo gioco, è quel
mistero del gioco in cui l’uomo, con il tempo della sua vita, è posto in gioco
nella sua essenza. Perché il grande fanciullo scorto da Eraclito nell’aion gioca il gioco del mondo? Gioca
perché gioca. Il “poiché” sprofonda nel gioco. Il gioco è senza “perché”. Il
gioco gioca giocando. Esso rimane soltanto gioco: il più alto e il più
profondo. Ma questo “soltanto” è tutto, l’Uno, l’Unico. Niente è senza fondamento.
Essere e fondamento: lo Stesso. L’essere, in quanto fondante, non ha
fondamento. Esso gioca come il fondo abissale, l’abisso senza fondo di quel
gioco che, in quanto destino, ci lancia l’essere e il fondamento. Rimane la
domanda se e come, sentendo le fasi di questo gioco, i tempi di questa
composizione musicale, noi siamo in grado di partecipare al gioco sentendoci in
esso» [15].
Con la sua analisi graduale e serrata che
ha poco a che fare con la tonalità ludica, presente nell’opera platonica, Heidegger, dopo aver vagliato il
corso della filosofia occidentale, arriva a vedere nel gioco il “senza perché”
del darsi dell’essere nel mondo, in altri termini il carattere gratuito
dell’essere nel mondo. Seppure il filosofo tedesco ribadisca il valore
ontologico dell’essere in uno dei suoi ultimi scritti [16]
e benché il suo pensiero abbia l’indubbio merito di pensare l’essere a partire
dalla gratuità ludica, la critica mossagli da Lévinas appare stimolante in
vista di un logos sul gioco. Il
filosofo francese, infatti, sostiene che Heidegger, nonostante accenni varie
volte al darsi del mondo, non giunge, attraverso il gioco del divertimento, a
pensare all’essere donato del mondo stesso [17].
Il filosofo tedesco, non lasciandosi guidare dal divertimento, non si apre al
gioco del mondo che
«con il suo godimento
divertente, permette di scorgere, contro il senso dell’abbandono insito nel
gioco del mondo, l’essere donato del mondo: al gioco dell’essere si contrappone
il mondo del gioco, in cui, come per incanto appare il dono del mondo» [18].
Venendo a mancare il
carattere divertente del gioco, seppur venga ravvisato il tratto gratuito che
lo sostanzia, Heidegger rischia di esporre la comprensione del fenomeno ludico
ad un equivoco. Il gioco del mondo, expressis
verbis, è l’unico, semplicemente perché è solo: nel suo svolgersi non c’è
reciprocità e neanche gioia. Il gioco rischia di essere serio e inquietante,
come è seria e inquietante la domanda che implicitamente si è
posta il filosofo nell’ultimo passo sopracitato. Qui Heidegger si è dimenticato,
contro una sua precedente intuizione, che «la felicità del gioco è un carattere
fondamentale» [19].
(estratto dal mio libro Teologia del gioco, dove puoi trovare molto altro)
[1] L. Salviani, Ermeneutica del gioco, ESI, Napoli
1998,75. Per una puntuale, sintetica e convincente comprensione del gioco in
Heidegger, cfr. E. Clauteaux, L’épiphanie de Dieu e le jeu théologique,
163-192.
[2] Cfr. M. Heidegger,
Essere e tempo, Longanesi, Milano
1969.
[5] Idem, Concetti fondamentali della metafisica.
Mondo –Finitudine –Solitudine, Il Melangolo, Genova 1982, 232.
[6] È questo, per esempio, il caso di Pier Aldo Rovatti, interprete, in Italia,
del pensiero debole, che volutamente preferisce fermarsi su certe pagine di
Heidegger, dimenticandone altre. Cfr. P.A.
Rovatti, Il grande gioco di Heidegger, in
«Aut-aut», 295 (2000), 56-65.
[7] È questo una sorta di vizio, quasi un pregiudizio, che si riscontra in
alcuni interpreti di Heidegger. Cfr. A.
Calligaris, Introduzione ai giochi di Heidegger, in «Aut-aut»,
295 (2000), 66-72.
[14] È il frammento 52, tanto caro anche a Nietzsche. Cfr. Eraclito, fr. 52, in I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari 2004, I,
208. Da notare il fatto che Heidegger ha dedicato ben due corsi universitari a
Eraclito, cfr. M. Heidegger, Eraclito. Mursia, Milano 2015.
[16] «L’essenza dell’essere è essa stessa il gioco» (Idem, Identità e
differenza, Adelphi, Milano 2009, 32).