Il gioco della Trinità

 

 


Il Dio dei cristiani è un Dio uno e trino e il gioco non può essere prerogativa esclusiva di una delle tre Persone divine. Infatti a motivo di un’eguaglianza nella natura divina, si può affermare che tanto il Padre quanto il Figlio e lo Spirito Santo giocano. La possibilità, pertanto, di delineare una Trinitas ludens appare conforme all’attuale tentativo della teologia di disincagliarsi dalle secche dell’onto-teologia. Infatti facendo leva sulla concezione di Dio come amore e non di Dio come essere, è possibile mettere in luce quel darsi, centrale come abbiamo visto nella speculazione hemmerliana, che rappresenta l’incipit di un’originale rilettura della teologia trinitaria in epoca contemporanea.

«Se si parte dalla realtà della communio e si designa il Dio trinitario come “evento interpersonale d’amore”, come “amore che accade”, allora non vi è un prius logico od ontologico di Persona/Persone o sostanza, poiché l’amore divino non è qualcosa che sta “prima” del gioco mutuo delle Persone, né qualcosa che viene “dopo” questo, quasi una sorta di “risultante” delle Persone che si amano. Dio è precisamente l’attuazione vitale comunionale, ovvero l’attuazione d’amore delle Persone stesse, è l’“evento dell’unione diversificante”»[1].

Per affermare questa unione la teologia patristica aveva usato, come abbiamo notato, il concetto di perichoresis che ha una profonda connotazione ludica. Il fenomeno ludico sembra infatti offrire alla teologia trinitaria analogia[2] in grado di esprimere, maxima similitudo tamquam dissimilitudo, quella comunione che in-abita il mistero della Trinità. Come, infatti, è stato osservato,

«un’analogia assai più pertinente [di molte altre] è invece offerta dalla realtà del gioco. Un gioco è un complesso di relazioni, che non esiste senza delle persone e dei rapporti tra le distinte persone e che “gioca” in modo tale da essere presente in ogni giocatore in modo estremamente specifico come un tutto. Nessun attore che reciti in un dramma, nessuno sportivo che sia impegnato in un gioco di squadra, nessun bambino che partecipi ad un gioco di ruoli, gioca una parte del gioco: lo gioca tutto, ma non da solo e per sé. Ciascuno sviluppa il gioco “totum, non totaliter”. In questo senso si può intendere la communio divina come il gioco dell’amore divino»[3].

Nel fenomeno ludico, dunque, è possibile rintracciare una potenzialità, ancora tutta da esplicitare, in grado di fare da paradigma, seppur imperfetto, alla comunione tra le tre Persone divine[4]. Tuttavia non è soltanto il complesso di relazioni che viene ad instaurarsi nel gioco, specialmente quello in cui sono coinvolti più soggetti, ma è anche la presenza di una certa vitalità che consente di superare decisamente l’impasse dell’onto-teologia. Non si dà gioco, tanto più quello di una squadra, senza movimento e collaborazione fra i diversi giocatori. Sotto questo profilo, se applichiamo questo discorso alla Trinità, viene in risalto quel dinamismo professato e creduto da ogni battezzato in base al quale il Padre è il generatore del Figlio e lo Spirto è colui che procede dal Padre e dal Figlio. Probabilmente la teologia dovrebbe mettere meglio in luce che in Dio stesso vi è un’e-stasi tanto che il Figlio è anche colui che è mandato dal Padre e lo Spirito è colui che è spirato e dal Padre e dal Figlio (spirazione attiva e passiva)[5].

Tratto da F. Cittadini, Teologia del gioco, Aracne Editrice, Roma 2021. Cfr: https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2021/07/teologia-del-gioco.html.



[1] G. Greshake, Il Dio unitrino. Teologia trinitaria, Queriniana, Brescia 2000, 210.

[2] Sulla necessità di frequentare le metafore/le analogie in teologia trinitaria, cfr. A. Cozzi, Manuale di teologia trinitaria, Queriniana, Brescia 2013, 66-67.

[3] G. Greshake, Il Dio unitrino, 212. Una simile considerazione la ritroviamo nell’opera di Catherine Mowry Lacugna. Tuttavia vi sono delle osservazioni da fare. 1) Benchè perichoreo significhi genericamente “girare intorno”, esso non va tradotto anche come “danzare attorno” e, di conseguenza, la perichoresis non indicherebbe la danza divina. In questo vi è una certa forzatura per fare derivare delle implicazioni di stampo femminista da tale nozione. 2) L’Autrice dichiara dapprima che, nonostante il suo intendimento del concetto di perichoresis sia filologicamente insufficiente, la metafora della danza è idonea ad esprimere la realtà delle persone in comunione, senza spiegare il perché. Cfr. C. Mowry Lacugna, Dio per noi. La Trinità e la vita cristiana, Queriniana, Brescia 1997, 276-285.

[4] La storia dell’uso del termine perichoresis è estremamente interessante. Infatti Massimo il Confessore, nel VII secolo, per affermare contro i monoteliti la cooperazione tra volontà divina e volontà umana nell’unica upostasis del Cristo userà tale concetto. A tal riguardo, cfr. H.A. Wolfson, La filosofia dei Padri della Chiesa, Paideia, Brescia 1978, 372.

[5] Cfr. W. Kasper, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 1997, 372.

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